di Gaetano Fimiani
Affrontare il discorso del romanzo postmoderno significa attraversare una continua tensione tra scetticismo e ansia di conoscenza, percorrere l’orizzonte legato alla caduta delle visioni complessive e totalizzanti che hanno caratterizzato la prima parte del Novecento alla fioca luce dell’incredulità.
Se una delle caratteristiche del modernismo poteva essere la nostalgia della grande storia, il postmoderno prende atto della perdita di significati delle conoscenze umane, delineatasi parallelamente ai cambiamenti che hanno interessato il sistema di comunicazione, lo sfaldamento delle relazioni interpersonali in tante monadi nell’universo virtuale della rete, l’avanzata mercificazione dell’intero sistema culturale e artistico, l’ampliamento del pubblico e il mescolamento tra le varie tipologie di cultura. Nessuna metafora illumina meglio questo passaggio epocale come quella dei rifiuti e della discarica, in apparenza capovolgimento del nostro cosmo e spazio dell’oblio, ma, in potenza, fulcro di una nuova memoria dell’umano, o altrimenti di una contromemoria.
In Rumore bianco di don DeLillo, l’autore di cui in questa rubrica consiglio la lettura, il protagonista apre il sacco della spazzatura e lo esamina:
Attraversai la cucina, aprii lo sportello del compressore e guardai nei sacchetti della spazzatura. Uno stillante cubo di lattine semistritolate, appendini per abiti, ossa di animali e altri rifiuti. Le bottiglie erano in frantumi, i cartoni appiattiti. I colori dei prodotti, tuttavia, erano intatti quanto a vivacità e intensità. Grassi, sughi e detriti pesanti filtravano attraverso strati di sostanze vegetali compresse. Mi sentivo come un archeologo in procinto di passare al vaglio un reperto di frammenti di utensili e spazzatura cavernicola assortita. Portai il sacco fuori dal garage e lo svuotai. La massa compressa se ne stette posata lì, come un’ironica scultura moderna, massiccia, tozza, beffarda. Vi ficcai più volte il manico del rastrello e poi sparpagliai il materiale sul suolo di cemento. Quindi ne estrassi i vari oggetti a uno a uno, massa informe dopo massa informe; chiedendomi come mai mi sentissi tanto colpevole, come di violare una privacy, di svelare certi segreti intimi e forse vergognosi.
Nel 1997, Don DeLillo pubblica il suo undicesimo romanzo, Underworld, per chi scrive capolavoro irripetibile del postmodernismo accanto a L’Arcobaleno della gravità (1973) di Pynchon e ad Infinite Jest di Wallace, che esce nello stesso anno.
L’intera trama viene concepita per aggregazioni successive attorno alla ricerca di un oggetto storico quale la palla da baseball colpita da Bobby Thomson nella storica partita fra Giants e Dodgers del 1951 — la prima trasmessa in televisione, fra l’altro. Non a caso il personaggio di Nick Shay, probabilmente l’alter ego dell’autore, comprerà la pallina e sarà il suo ultimo possessore non tanto per particolare interesse verso la famosa partita del 1951, quanto perché rappresentativa di un passato che non c’è più, di un tempo ormai inafferrabile.
Lo stesso DeLillo racconta che dopo aver letto dell’anniversario della partita mentre faceva colazione — e dopo essersene scordato — andò in biblioteca alla ricerca di “una connessione inaspettata”. E la trovò: lo stesso giorno del match ci fu un’esplosione nucleare dei russi. Tutto è collegato: guerra fredda e sport, minaccia atomica globale e piccoli destini individuali. Non sorprende allora che nel romanzo la parola Underworld agisca da moltiplicatore semantico, assumendo vari ruoli e legando realtà molto diverse fra loro, ma soprattutto richiami di continuo il simbolismo della produzione dei rifiuti.
E non è un caso che Nick Shay da adulto lavori proprio in questo ambito; e un personaggio da lui incontrato, Detweiler, ritiene che la spazzatura si sia sviluppata prima della civiltà “spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa”.
Non può che venire alla mente Italo Calvino e la sua città di Leonia, città “continua” che confina infatti con altre città che, come lei, rischiano di rimanere sommerse dai propri rifiuti e segno tangibile di una società basata sulla forsennata eliminazione dei prodotti non appena utilizzati
La città di Leonia rifà sé stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall’involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall’ultimo modello d’apparecchio.
…Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti di Leonia d’ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo i tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d’imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose di ogni giorno che vengono fabbricate vendute comprate, l’opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove.
E che queste non siano inutili note di spazzatura critica può sottolinearlo il fatto che Zygmunt Bauman ha dedicato alcune pagine all’analisi di questi ed altri passi delle Città Invisibili nel suo saggio Vite di scarto del 2004, nel quale analizzando lo stato di emarginazione sociale che caratterizza una parte della popolazione nel mondo globalizzato non esita a paragonare la prospettiva degli abitanti di Leonia a quella di una parte della popolazione delle megalopoli occidentali.