di Luca D’Angelo
Postilla: per comprendere appieno il saggio è necessario tenere a mente due macroaree. La prima è la ragione mentre l’altra è l’animalità. La facoltà razionale è uno strumento conoscitivo analitico poiché permette di comprendere mediante una attenta analisi la parte di un intero fenomeno preso come oggetto d’indagine. Dall’altra parte, troviamo la parte più disprezzata e sottovalutata dal soggetto, ovvero, l’animalità che costituisce la parte più atavica della natura umana: solo facendo una piena immersione in questo concetto è possibile riscoprire una parte dell’umano che forse è stata volutamente dimenticata.
Dato che siamo degli esseri mortali tanto quanto lo sono gli animali, cosa ci spinge a definirci superiori rispetto a loro? È il logos, la ratio che ci permette di identificarci in una dimensione limbica che oscilla fra l’animale e il divino. Dunque, è la ragione che ci differenzia e che ci ha dato la possibilità di elevarci al di sopra di essi. Il pensiero logico-razionale è una gabbia, una limitazione necessaria che non solo ci ha fatto emancipare dal mondo animale, ma ha reso persino possibile all’uomo di vivere attraverso delle rappresentazioni che lo hanno aiutato nell’addomesticare l’orrido della vita per mezzo del “principium individuationis” o “principium rationis”. Questo principio afferma che tutto quello che avviene nella realtà accade per un preciso motivo razionale, infatti, ciò può essere sintetizzato nella celebre espressione “nihil est sine ratione” che significa “nulla è senza ragione”. Purtroppo, l’esistenza non risponde ai dettami della ragione, anzi, è completamente opposta alla logicità. L’inadeguatezza di tali piani ha portato l’uomo non solo a voler conoscere con presunzione l’inconoscibile, cioè la vita, ma addirittura a volerla correggere. La presa di coscienza della nostra limitazione e del non poter rispondere ad alcune domande che l’uomo si pone da sempre, ci ha portati a rivalutare la concezione del corpo e della natura. L’essenza della vita ora si riscontra non tanto nel “bios”, ma piuttosto nella “zoè”. Sostengo ciò, perché il “bios” è la “vita quam vivimus”, cioè la vita qualificata, di qualsiasi genere, che ha un inizio e una fine; la “zoè” invece è la “vita qua vivimus”, quella che è l’essenza della vita. Il termine “zoè” indica il sostrato vitale che è insito nella vita organica, infatti, non richiama la vita di un soggetto che agisce, ma quella dell’intero complesso organico (la natura). Anche se l’uomo prendesse consapevolezza della sua misera natura e di non poter rispondere a delle domande su cui s’interroga da sempre, comunque, continuerebbe a porsi questi quesiti senza risposta perché è insita nella ragione umana porsi domande di questo calibro a cui mai nessun uomo potrà rispondere. Purtroppo, non c’è la possibilità di eliminare questa nostra caratteristica che ci induce ad una sottile sofferenza, l’unica cosa che possiamo fare è imparare a non farci ingabbiare da tali incognite noumeniche. Ma forse il vero senso è proprio l’interrogarsi, è proprio pensare in circolo senza mai sciogliersene. Sembra che la finitezza incoraggi una riflessione ancora più trascendentale, l’uomo tende al metafisico, tende a ciò che è più distante da sé. Anche ciò che non c’è ci preoccupa, ma il pensiero causa tribolazione.
Questo è quello che cerca di dirci Matteo Nucci nel suo “Il grido di Pan”.