Che cosa significa leggere? Cosa ci spinge ai libri? Cosa proviamo quando leggiamo? Non ci sono risposte giuste o sbagliate a queste domande, perché ognuno vive un rapporto diverso e unico con la lettura. In questa rubrica proveremo a raccontare le varie sfaccettature che caratterizzano l’esperienza di lettura cercando di definire e mappare il tipo di sensazioni che suscita un buon libro.
di Luisa Di Filippo
Lettore #6
“La lettura è un rapporto con noi stessi e non solo col libro, col nostro mondo interiore attraverso il mondo che il libro ci apre”
Italo Calvino
Da bambina amavo stare per terra, sentire il freddo tocco del pavimento o il bruciore alle cosce dato dalla sabbia rovente. Nei giorni caldi d’agosto, scappavo nello studio dei miei genitori, sedevo sulle fresche mattonelle e osservavo col naso all’insù la nostra libreria. Mi pareva un castello con innumerevoli stanze, ornato dalla più variopinta delle bandiere; riuscivo a sentire le grida dei suoi abitanti, chi di terrore, chi di gioia, chi di amore. Ognuno di loro, da ogni spiraglio, mi chiamava. Aprivo le ante vetrate e come fossi entrata in un negozio di dolciumi, lasciavo che l’odore della carta mi impregnasse le narici. Sorridevo, sempre!
Ero solo una ragazzina quando lessi il titolo dell’opera di Giovanni Verga Storia di una capinera, nella collana di classici di mia madre, non sapevo bene cosa fosse la capinera; quindi, corsi a chiederlo a mia sorella maggiore, con la curiosità che si nasconde tra le ciglia dei bambini. Quando lei comprese che intendevo iniziare quella lettura le si illuminarono gli occhi e mi spronò nel farlo; mi spiegò che la capinera era un uccello, un essere che, come ogni animale, anela alla libertà quando rinchiuso. Capii ben presto perché non avesse aggiunto altro, poiché in verità la penna superlativa di Verga avrebbe dato un senso, durante la lettura, alla scelta di quel titolo. Il romanzo racconta la storia della vita spezzata di una fanciulla, Maria, costretta alla clausura a causa delle condizioni economiche della famiglia. Verga decide di restituirle la voce, tramite una raccolta di lettere che la ragazza scrive all’amica Marianna, raccontando i sentimenti provati in convento. Maria era stata costretta a rinunciare al suo amore per Nino, il giovane vicino di casa, e ad assistere al beffardo matrimonio tra quest’ultimo e la figlia della sua matrigna. Nello scenario ottocentesco di una Catania dilaniata dal colera, si infrange l’animo di una giovane donna che aveva osato desiderare di amare, di scegliere per sé, di essere libera; desiderio che l’avrebbe condotta prima alla follia e poi alla morte per l’insostenibile dolore.
“Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.”
Ricordo di aver letto quel libro senza prendere respiro, di essermi da subito immedesimata in quell’anima malinconica che scrutava il cielo dalla finestra della sua stanza. Di aver compreso perché Verga aveva scelto la capinera, l’annunciatrice del temporale di Pascoli, per rappresentare la sua storia. A chiunque, almeno una volta nella vita, è capitato di sentirsi un uccellino in gabbia, costretto ad andare contro la propria natura; ma ognuno ha il proprio modo di sentire e alcuni più di altri non sono in grado di non spiegare le ali e preferiscono la morte alla sopravvivenza. Allo stesso tempo, Verga ci insegna che le prigioni più pericolose sono quelle in cui veniamo condannati dalle nostre stesse menti; che si può impazzire per amore, quando la vita sfugge al nostro controllo e l’oltre si riduce ad una serratura in cui non ci è dato guardare, perché noi esseri umani, proprio come la capinera, non solo di miglio ci nutriamo. La conclusione di quella lettura mi lasciò un peso sul cuore, eppure era come se non fossi mai stata libera fino a quel momento. Non ero in grado e non lo sono tutt’ora di definire cosa quelle parole suscitarono in me. Ma avevo capito, tutto era chiaro, non avrei permesso a niente e a nessuno di imprigionarmi, nemmeno a me stessa.
E poi conobbi lei, Oriana Fallaci, autrice che oggi con la fermezza da adulta posso dire abbia forgiato il mio animo di donna. Quando iniziai a leggere Lettera a un bambino mai nato non avevo idea delle tematiche complesse in cui mi sarei imbattuta, ma sospettavo si trattasse di una storia struggente e questo mi incuriosì. Ho sempre sentito di comprendere meglio il dolore, come se fosse uno dei pochi modi per sentirsi nel mondo congiunti a qualcun altro, o a sé stessi nel profondo. Lettera a un bambino mai nato è un monologo interiore di una donna contemporanea che decide di vivere la maternità come un atto responsabile e non solo come un dovere naturale. Questa donna rappresenta ogni donna! Non ha volto, nome, età, di lei si conosce solo il caos drammatico in cui viene catapultata quando apprende di essere in attesa: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. Mi si è fermato il cuore”
Oriana Fallaci affronta a viso aperto, con la criticità e la schiettezza che caratterizzano le sue inchieste giornalistiche, un tema sensibile allora come oggi, e lo fa in difesa delle battaglie e degli ideali che hanno caratterizzato la sua vita personale e professionale. L’opera non testimonia semplicemente i pensieri di una donna che non sa se proseguire o interrompere la gravidanza frutto di una relazione con un uomo, che decide di abbandonarla quando apprende la notizia, i dubbi e le domande che si scontrano con un mondo “fabbricato dagli uomini per gli uomini”; l’autrice dialoga con l’esistenza stessa e decide di scardinarla, di ribaltarla come un calzino, per regalare ai lettori il suo punto di vista. Non so dirvi se riesce o meno nel suo intento e non entrerò nel merito del mio pensiero sulla maternità, sulla libertà di una donna di esercitare un diritto più che un dovere o sulla gettatezza che contraddistingue il venire al mondo. Piuttosto, ciò che quest’opera suscitò e suscita ancora in me, è la volontà di non tacere, di non guardare il mondo nel solo modo che ci viene insegnato, di capovolgere le verità e metterle in dubbio anche solo per confermarle. Seppure la volontà della Fallaci fosse ben distante dal creare un’opera manifesto del femminismo, dato che il senso profondo delle sue parole sottolinea semplicemente la parità di genere, negli attimi in cui leggevo, dentro di me si faceva strada un senso di giustizia verso i più fragili, che ho cercato sempre di far valere nelle mie scelte e che ancora oggi riempie la mia vita. Ricordo di essere rimasta sopraffatta da ogni pagina, un fuoco ardente si stava accendendo in me e ancora non sapevo quanto quel fuoco avrebbe continuato ad ardere negli anni, segnando inesorabilmente il mio cammino. Ero sempre stata una ragazzina che si poneva domande senza risposte, eppure per la prima volta rimanevo in silenzio, e quello che era stato il mondo fino ad allora veniva ribaltato e le prospettive diventavano infinite. Ricordo di aver concluso quella lettura tra le lacrime senza nemmeno accorgermene. Di fatto quello è stato l’unico libro che ho ricominciato a leggere non appena conclusa l’ultima pagina, per il solo timore di non aver colto abbastanza.
Ora che mi fermo a riflettere, comprendo quanto queste due opere in particolare, le prime a cui penso se come in questo caso mi viene chiesto di spiegare cosa sia la lettura per me, siano connesse profondamente, in un senso ciclico siano legate da un fil rouge annodato alla mia esistenza; come se avessi avuto bisogno proprio di incontrare quelle parole per essere quella che sono ora, firmando quella che amo definire la mia “condanna”. Due storie diverse, due donne vissute in epoche distanti che desiderano e lottano per uno scopo, la libertà e la giustizia, i valori che oggi più sento appartenermi. Le parole sono sempre state un antro in cui rifugiarmi, gli innumerevoli libri divorati ali per planare sul mondo che si sgretolava intorno a me, ed è stato solo grazie alla lettura se ho scoperto il grande amore per la scrittura, la mia salvezza. Leggendo ho avuto modo di vivere mille vite, altrettante epoche, di conoscere innumerevoli anime e di visitare gran parte del mondo, mentre il mio corpo era immobile tra le quattro mura della mia stanzetta. Senza dubbio tanto della mia identità si è formata in quegli attimi, per questa ragione non è mai stato semplice definire quale sia il valore della lettura nella mia vita, poiché sono stata colta da tante epifanie, sia negli anni da lettrice appassionata che in quelli da studentessa. Le opere che ho letto sono state maestre da cui ho appeso valori antichi e in disuso, tramite le quali ho analizzato me stessa e ho formato con criticità la mia coscienza, consegnandomi quella che prima ho chiamato “condanna” e che ora definisco ricchezza: la capacità di essere laddove non esiste più solo l’animale, di vivere la vita con pathos per sentire oltre ogni senso. Leggere ci dona la possibilità di far parte della memoria collettiva, di esercitare concretamente la nostra esistenza, di sviluppare e bramare quella tanto auspicata libertà che è strumento di chi conosce. D’altronde il senso allegorico dei libri che ho scelto può essere definito dalla citazione di Jean Jacques Rosseau “La libertà non consiste tanto nel fare la propria volontà, quanto nel non essere sottomessi a quella altrui”. Ed è proprio questo che ha rappresentato la lettura per me, la possibilità di conquistare me stessa senza imposizioni. Sono trascorsi molti anni dalle mie prime letture, eppure quando il mondo diventa un posto troppo angusto in cui abitare, corro ancora ad aprire quelle ante vetrate e sorrido, sempre!